Il vento come canna di fucile tra gli alberi sferzava colpi improvvisi alla sagoma nera di neve gelida e ghiaccio. Non riusciva a capire dove fosse. Attorno a lui tutto il bianco della neve lo disorientava. Dov'era finito, ma soprattutto come era finito in quel posto. Chi lo aveva messo lì. Il freddo era insopportabile. Non sapeva come ripararsi, non si ricordava niente. Il panico gli stava fottendo il cervello, respirare, ci sarà sempre un respiro dopo il prossimo, l'aria non sarebbe finita. Come un loop, come se fosse un mantra. Il gelo rallentava le sue mosse, era stato fermo per tanto tempo, forse ore, era intorpidito, anchilosato.
La prima cosa che fece, fu tastarsi, le gambe il busto le braccia, sembrava tutto intero. Freneticamente passò le moffole sulla testa, rimuovendo il cappello, e in quel momento sentì una scarica allucinante che lo buttò nella neve. I guanti erano sporchi di sangue rappreso e nero. La ferita non doveva essere profonda, molto più preoccupante era il colpo che aveva preso.
-Quegli stupidi non hanno capito cosa significa tentare quella via appena prima del grande buio-
Il grande buio, così veniva chiamato dagli abitanti di Storuman, Lapponia, mesi in cui le macchine vanno attaccate ai generatori elettrici, dove la cena viene consumata come la colazione, dove le tende non sono mai tirate e dove la depressione dilaga. Buio come notte come silenzio come incubo.
Malte non aveva idea del clima, delle tradizioni dell'eterno giorno che ti prosciuga la mente. Pensava che quella via faceva per lui, lo chiamava di notte, lo ossessionava di giorno. Non era una via difficile, un misto ghiaccio-roccia di circa 500 m, il grado ampiamente alla sua portata, un quinto scarso. La sola cosa che lo preoccupava era l'avvicinamento. Due giorni di cammino nella neve, dove i pericoli più grandi erano dovuti all'orientamento, e al freddo. Per orientarsi il gps non bastava, il segnale era messo a dura prova dai fitti boschi di pini altissimi e le guide del posto sconsigliavano di partire se non accompagnati. Il solito metodo per fare soldi pensava. Non soffriva il freddo, le dita le aveva ancora tutte ed era disposto a perderne qualcuna diceva ridendo. Era un tipo calmo capace di prendere decisioni estreme, ma mai avventate.
Nell'ambiente lo chiamavano Dylan, perché una volta era rimasto bloccato in parete per tre giorni, avendo perso le corde, aveva aspettato i soccorsi pazientemente cantando per non scoraggiare i suoi compagni. Gli stessi che lo accusavano di non avere rispetto per Pilar che lo aspettava sempre ansiosamente. Ma loro non sapevano niente del loro rapporto, non sapevano della sua esigenza viscerale di partire e delle litigate e tutte le cose che si erano lanciati addosso e tutte le urla che erano servite ad accettarsi. Lui era fatto così, sentiva di vivere solo in montagna. E nella sua lunga esperienza aveva conosciuto tante persone come lui, Themo era una di queste. Era lui il suo compagno di spedizione.
L'ascensione della parete ovest del Norra Storfjallet seguendo la via hallandsas gli era costata solo 3 giorni, di arrampicate mai impegnative e foto nitide. Il tempo, come segnalato dalle previsioni, era stato splendido, l'aria leggera e carica di tristezza per l'avvicinarsi del grande buio creava giochi di luci impressionanti. Spesso durante la scalata rimanevano estasiati dai colori innaturali che li avvolgevano e li catapultavano in una realtà onirica, dove si sentivano delle figure inanimate. Malte si sentiva scarico, era appagato come solo la montagna riusciva a riempirlo. Camminava seguendo le peste nella neve di Themo, ciondolante e sgraziato, l'unico rumore era quello dello zaino che strusciava fastidiosamente contro la giacca, o quello di quando il suo compagno sprofondava nella neve. Non si dicevano una parola, stavano condividendo solo con loro stessi questo momento. Mancava poco più di un giorno all'arrivo ma non gli sarebbe pesato. Sarebbe passato in fretta senza fatica. In silenzio, parlando solo lo stretto indispensabile. -Mi passeresti il tè, dove hai messo lo zaino, quella cengia sembra accogliente.- Questo si sarebbero detti, niente di più. Amava il rispetto di quel silenzio che la montagna esigeva, amava lo sforzo che richiedeva la loro impresa, che non sarebbe finita su nessun giornale, che al massimo avrebbe scaldato la serata in qualche rifugio di montagna. Amava contemplare per ore ogni ruga, ogni pietra tutte le corteccie, proprio come stava facendo ora. Amava camminare sui suoi problemi, calpestandoli di fatica.
In cielo l'aria fredda si depositava sopra l'aria calda formando una linea perfetta all'orizzonte, i colori scuri in lontananza non li preoccupavano, dalle previsioni erano a conoscenza della perturbazione che si sarebbe verificata giovedì. Loro sarebbero tornati mercoledì, quindi nessun rischio. Nessun rischio nemmeno di incontrare il grande buio. Previsto per il weekend.
In quel momento tutto era cambiato, la cresta di neve sulla quale erano sospesi si era staccata di netto, senza un rumore.
Le raffiche di vento lo costringono a ripararsi piegandosi su se stesso, il cappello che ha tra le mani gli vola via senza che riesca a fare niente. Cerca di perlustrare la zona, per vedere dove è finito, ma la neve gli rende difficoltoso qualsiasi movimento. Ormai è perso. Un flash, gli appare il corpo di Themo. Congelato, e rigido, senza vita. Non sente niente, solo una gelida constatazione. Freddo, distaccato come se non appartenesse a questo mondo. Cerca solo una via per salvarsi. Nessuna compassione. La sua giacca ha due grossi squarci da cui il vento penetra facendolo tremare. Non sa minimamente dove sia. Tira fuori il gps dalla tasca, prova a premere il pulsante a fondo ma lo schermo resta nero. Per la prima volta in vita sua si sente perso, si insinua nella sua testa l'idea che questo è troppo anche per lui. La paura lo assale passando dagli stessi fori nella sua giacca. Lui sa bene come gestirla, come affrontare le situazioni. Respira forte, entra in modalità allerta, compie gesti precisi, dosando le forze. Non deve commettere errori dai quali non può tornare indietro. Non deve sbagliare, ha pochissimo tempo. La notte che è arrivata in anticipo di tre giorni lo ha colto di sorpresa ma lui è pronto ad affrontare qualsiasi imprevisto. Non ha paura del buio e del freddo anche se sa perfettamente che la sua autonomia in quelle condizioni è limitata. Le sue possibilità sono prossime allo zero. Non ha una luce, le sue mani sono ormai gelate ma non si arrende, si accovaccia e scava. Le mani non le controlla sono inanimate. Le usa come fossero estremità d'acciaio, attaccate alle sue braccia. Deve scavarsi una truna, è quello il suo compito. Il suo compito non è quello di salvarsi, di tornare a casa, ma è quello di costruire un rifugio per la notte, che lo ripari, che gli permetta di non morire. Piccoli passi, contro il tempo nemico, contro il freddo, contro il dolore. A lui sembra di scavare da poco, ma il buio gli impedisce di capire che la neve non è stata quasi scalfita dal suo lavoro, pensa di muoversi veloce, mentre i suoi movimenti sono lenti, e impercettibili, anche i suoi pensieri rimangono come in stallo e non procedono, per questo forse non si accorgerà mai di essere morto.
Il sole riluce sulla neve e sul ghiaccio su tutti i boschi le pietre i corsi d'acqua della distesa Västerbotten, e adesso batte anche sui corpi di due statue di ghiaccio in un bosco, di cui nessuno saprà mai niente.
Segnalazione baco: il racconto è stato copiato e incollato due volte in questo post. Forse tre.
RispondiEliminaL'aria calda è più leggera dell'aria fredda.
RispondiEliminajew abbassa la cresta o ti muro in camera, e vatti a leggere una cosa http://incomaemeglio.blogspot.com/2010/07/snob-alla-quarta.html
RispondiEliminaue ricicliamo i link?
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