venerdì 6 maggio 2011

Dreamcatcher

Bisogna che stringa i freni, quelli di dietro. Ogni volta che tiro con le dita sento che si allentano un po' di più e forse è meglio che li stringa. Domani lo faccio, scendo in garage un po' prima e metto a posto tutto.
La fine di via Vico, quando si passa sotto le mura del carcere, alte e rosa con qualche striscia girigia a coprire le scritte degli anarchici, dei disobbedienti, o di qualche altro loro parente, lì, dopo l'incrocio con via degli olivetani, è tutto selciato sconnesso e rotaie. La bicicletta va tenuta a metà tra i due binari della rotaia di destra, con qualche leggera deviazione in senso contrario, perché quando è giorno le macchine hanno l'orrenda abitudine di lasciarsi abbandonare in mezzo alla carreggiata. Ora, però, è buio, è tardi, in un orario indistinto tra le due e le quattro di mattina, la precisione non è rilevante. Il manubrio saltella, assecondando le spinte dei sanpietrini buttati a caso, o forse con il preciso intento di rallentare una possibile fuga in bicicletta di qualche galeotto sprovveduto, un Edmond Dantès squattrinato in sella a una graziella scassata. Saltella il manubrio e saltello io, col culo adagiato sul sellino. Rassoda, mio caro, rassoda che male non fa.
L'ora, è dichiarato, non è definita, mentre è facilmente riconoscibile il percorso. So di arrivare dai Bastioni, ricordo di aver fatto prima via De Amicis, poi dentro in San Vincenzo, a destra in Ariberto, attraversato via Olona, dritto in via Vico, sotto le mura del carcere. Riconosco di avere musica nelle orecchie, ma percepisco solo la sensazione della musica, non la musica stessa.
Tutto avviene all'incrocio con corso di pt.a Vercellina. Di notte non è necessario fermarsi per rendersi conto dell'arrivo di veicoli, i fari ne annunciano la minacciosa presenza. In assenza di fasci luminosi: attraversare.
Non questa volta. Sicuro, mi alzo sui pedali per spingere in avanti la bicicletta, le faccio fare un balzo dentro l'incrocio. La macchina non si vede mai, solo l'urto. Non c'è dolore, non c'è sangue, non c'è macchina. Solo lo schianto e la certezza della morte. So di essere steso in terra e sono consapevole di morire, io SENTO di aver pochi minuti ancora, lo sento. Ma non mi importa, solo vorrei salutare, vorrei sentire una voce. Il cellulare squilla a vuoto. Due tentativi, sempre due. Mai nessuno risponde. Questo è il punto in cui sogno diventa incubo. Non l'incidente, non la morte, ma il deserto, l'abbandono. L'incubo è essere solo, davanti al niente, pronto a morire.
Lo sogno ormai regolarmente, magari anche due volte la settimana. Attraversando corso di porta Vercellina, investito da un'auto invisibile, chiamo inutilmente e sono lasciato, solo, a morire.
Io dormo con il cellulare acceso.

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