Conosco una persona che si chiama ******** *******, ed esiste veramente. Non conosco molto bene la sua storia, né quella della sua famiglia, non conosco i suoi genitori di persona, so solo quello che mi è stato raccontato.
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Da piccola amava giocare con le
macchinine; strano, dicevano, ma le piacevano molto anche le bambole.
In particolare era affezionatissima a “Barbie tutti i trucchi”,
una pupazza bellissima, truccatissima, coloratissima, che aveva gli
occhi tondi, un po' da pesce, ma distanti e azzurri, un po' nascosti
dalla frangia bionda. Immaginava di andare a fare la spesa
nell'angolo nascosto della sua camera, poi tornava e preparava da
mangiare per i figli, gomma e temperino, e poi si sedeva su una sedia
a guardare il cielo, e tutti quei begli uccelli che ci navigavano
tranquilli e spensierati, cinguettando
tra loro. La mamma la vestiva come un camionista. Arrivava a scuola
attrezzata di salopetta, il più delle volte, aveva il cerchietto tra
i capelli corti, e io la immagino col mento imbronciato contro il
petto e la mani strette forte in un piccolo pugnetto di bambina,
mentre frigna contro qualcosa. Aveva una maglietta rossa e le
caviglie le rimanevano scoperte sotto il completo blu. Le piaceva
correre, era magra, e non aveva molta voglia di fare le cose da
femminuccia, ma non aveva il coraggio di inseguire i maschi, perciò
si ritrovava esclusa da tutti i piccoli cerchi entro i quali bambini
della sua età si chiudevano
gelosamente; ma la cosa non le pesava più di tanto, colorava,
disegnava, giocava con le macchinine e pensava di diventare grande:
questo le era più o meno sufficiente.
Sin da bambina, ******** è sempre
stata magra, ma magro non era suo fratello minore, che invece
mangiava, e amava mangiare, e non smetteva mai di mangiare. Erano
piccoli, di questo non si curavano.
Poi iniziarono le elementari, e quando
cominciò le medie era evidente che ******** stesse crescendo. Era
tra le ragazzine più alte (pure gelosa di questa sua bellezza), ma
non le era mai interessato nessun ragazzo. La mattina si alzava, e
dopo essersi preparata aspettava, tutta vestita e con lo sguardo
assorto tra le pieghe del pavimento, che papà la caricasse in
macchina e la portasse a scuola. Non amava andare a scuola, neppure
lo odiava. Non otteneva dei risultati brillanti, ma nessuno la
ritenne mai una studentessa negligente: sedeva là, occupava il banco
infondo perchè le professoresse non si preoccupavano del fatto che
potesse disturbare. Non era una ragazza asociale, aveva un gruppetto
di amiche, e piuttosto spesso frequentava anche i suoi compagni di
classe. A casa studiava, o si annoiava. Non ha mai fatto nessuno
sport, per quanto ne fosse piuttosto portata grazie al suo corpo
piccolo e atletico. Distinto fu il voto con cui si diplomò alle
medie. Poi cominciò il San Carlo. In casa ci furono grandi litigi
sulla scuola da farle frequentare. A lei non sarebbe dispiaciuto un
liceo classico, uno statale, le era piaciuta la presentazione del
Tito Livio, anche se molte sue amiche sarebbero andate al Manzoni.
Suo padre, d'altra parte, non avrebbe accettato altra alternativa al
di fuori del san carlo. Fu la madre a prendere le sue difese. Per
qualche tempo le porte di casa sbatterono con più forza del solito,
a tavola c'era un po' più di silenzio, qualche volta doveva andare a
scuola da sola, e iniziò a dimenticarsi di quando suo padre e sua
madre si prendevano per mano. Accanto a suo fratello, vide aumentare
i silenziosi spazi di tempo che si creavano nella piccola stanza che
condividevano.
Un paio di mesi dopo era iscritta al
San Carlo, ma la cosa non le pesava più di tanto. Nel liceo si
ritrovò gettata, e per sopravvivere si abituò ad apparire. Non
furono mesi facili, i primi che visse nella classe al secondo piano.
Non capiva in che situazione si trovasse, suo malgrado.
Fu una trasformazione brusca e
scordinata quella che la investì in quel periodo, di cui si sentì
vittima inconsapevole. Aveva smesso da un po' di giocare con Barbie
tutti i trucchi, però non aveva mai smesso di guardare fuori al
tempo del mondo. Le sembrava di prendere ora possesso del suo corpo,
e scopriva di non esserne affato abituata; l'inverno era
terribilmente freddo, e il freddo era proprio freddo. Soffriva. Era
carne viva senza involucro, si sentiva ferita da ogni carezza; il
cuore le batteva a fior di pelle, e non le pareva di avere il tempo
di organizzare una difesa contro tutte quelle rabbiose intemperie che vedeva fuori dalla finestra. Non colorava, non
disegnava più. La sua vita, a ben pensarci, non era altro che la
scuola, e la sua popolazione. C'erano professori, i primi che avesse
mai avuto, e c'erano i suoi coetanei, anche maschi, i primi che
avesse mai visto. Le femmine, d'altro canto, non erano molto
interessate a lei: il modello era chiaro, il modello camminava a
piccoli e aggraziati passetti per i corridoi, seguito da un
affettuosissimo profumo, vestito deliziosamente, divinamente
truccato. Lei era ancora sporca di latte nelle sue scarpette
consumate, non era certo la compagna ideale da portare in giro.
Poi fu come un risucchio. Com'è
possibile? Eppure non le sembrava tanto strano indossare quei
vestitini, si chiedeva anzi come mai avesse iniziato a vestirsi così
solo in quel momento. E le veniva così naturale indossare quelle
maschere, le riusciva un esercizio così disinvolto, che non fece
neppure in tempo a voltarsi per vedere la fodera del suo piccolo
corpicino, che giaceva stramazzato dietro di lei, ad un solo passo
dalle nuove gambe, lunghe e pallide, sottili.
Ma chiunque l'avrebbe riconosciuta, io
stesso non la scambiai mai per nessun'altra, così cambiata, perchè
dentro di lei non era cambiato nulla, nulla sembrava diverso da
prima.
Ma è sempre stata svampita, troppo
svampita. Era svampita nel modo di camminare a scatti, lento e poi
veloce, come se continuasse a dimenticarsi verso dove muovesse; era
svampita nel modo veloce di sorridere, un po' ebete, guardando da
qualche altra parte; era svampita nel modo con cui faceva le cose,
incostantemente, con meticolosa precisione e grande superficialità
insieme. Era tanto svampita che non era completamente consapevole,
secondo me, quando si cacciò due dita in gola, seduta in bagno,
abbracciata alla tazza del cesso.
In verità era la prima volta che
vomitava apposta, e le venne piuttosto spontaneo, senza nemmeno
capire cosa voleva dire quello che stava facendo. Era da giorni che
non mangiava quasi nulla, niente colazione, niente pranzo, a cena un
po' di formaggio; per mamma e papà semplicemente non stava tanto
bene. Aveva bisogno di grandi energie, stava crescendo, era normale
che si sentisse così debole, questo dicevano i suoi genitori.
Supradin, vitamine, reggiti ragazza! Si sentiva sempre debole, ma si
vedeva dimagrire, ed era fiera di se stessa, enormemente fiera di se
stessa. Si ammalò una prima volta, poi una seconda, poi una terza
nel giro di pochi mesi, non aveva più nessuna forza per resistere ai
bacelli malefici che volavano sulle foglie fuori dalla finestra.
Sdraiata nel letto, malata, guardava fuori un quadro autunnale. Si
tastava il corpo, conosceva sporgenze, rientanze, ossa che mai aveva
sentito prima. Non si era mai sentita particolarmente grassa, ma
nulla le poteva dare la stessa soddisfazione che le dava conquistarsi
quel corpo, tutto nuovo, capace di cose incredibili, bello,
slanciato. Nessuna conquista superava la gioia di accarezzarsi il
ventre piatto, di vedere le braccia sottili, e il collo lungo e
affusolato che reggeva quella testa piuttosto carina, alla fine.
All'inizio, separarsi dal cibo era stato difficilissimo. Lei non ha
mai amato nulla più di quanto amasse mangiare, mangiare bene,
mangiare male, mangiare, mangiare e mangiare. Era una condizione
esistenziale, il profumo che precedeva la cena, il gusto che la
accompagnava, e la sensazione di completezza che la seguiva, erano un
ciclo di vita, che aveva sempre amato, rispettato, e a cui doveva
moltissimo. Separarsi dal cibo era stato un dolore che si era
inflitta inconsapevolmente, ma che svanì presto. Subentrò poi un
periodo lunghissimo di inappetenza, un periodo in cui non era capace
più di mangiare, che aveva dimenticato, completamente, quale fosse
il rito sacro che accompagnava il momento del pasto. Poi avvenne che
i suoi genitori si accorsero che vomitava. Scoprirono anche che
prendeva i lassativi, ne prenedeva tantissimi. Fu il padre che prese
la situazione in mano; ma lei era troppo fragile, così commise un
gravissimo errore. ******** non subì solo la rabbia del padre, non
solo i suoi insulti e i castighi, ma anche lo sguardo deluso della
madre, uno sguardo pietoso, come di rassegnata sconfitta e di
tradimento. ********** non voleva questo, lei non era questo, non era
anoressica, non era quello che tutti pensavano che lei fosse. Lei
voleva solo dimostrare a se stessa la propria forza, era solo così
svampita... Così quando cominciarono i controlli lei non sgarrava
mai, era ligia, tutto quello che desiderava era far piacere ai propri
genitori, far capire loro che non era sua intenzione voltar loro le
spalle; perciò mangiava tanto, il più possibile: il primo no, non
lo tocco, del secondo prendo solo qualcosa, ma voglio una bella coppa
di gelato, e un altra, e poi un'altra. Un'altra grazie. Vedi papà,
guardami mamma, quanto mangio! Ho finito tutta la torta!
Poi tornò a vomitare.
In questo momento non la riconobbi più.
Era persa, tornare mangiare le aveva rubato la sostanza, ora non
capiva più di cosa avesse bisogno il suo corpo per vivere; dolce,
poi frutta, poi secondo e ancora primo, tutto nello stomaco (dopo
averli frullati).
Tornò a divorare lassativi; non mi
sono mai cacciata le dita così in fondo alla gola, pensò un giorno.
Lo venne a sapere, ma non poteva
accetare una situazione del genere, così il padre la spedì
all'ospedale.
-Non è il caso che passi le vacanze
estive in giro, le dissero i medici, così Luglio, Agosto e Settembre
furono mesi di soggiorno gratuito nel letto del reparto neurologico
del Niguarda.
Non è stato neppure l'arresto
cardiaco, le lacrime dei suoi genitori o l'orrore per il suo corpo
sottile, pieno di tubicini, che le ha dato la forza di uscirne.
È passato più di un anno, e ora
l'ospedale e i medici e gli infermieri hanno tutti una faccia più
familiare. Solo lei, ai loro occhi, è rimasta un esile mostro,
inghiottito dalla propria voracità, diciassettenne e in fin di vita.
Complimenti per il bel pezzo...Solo qualche osservazione da addetta ai lavori: adesso le anoressiche difficilmente muoiono, perchè vengono comunque "salvate"(o almeno viene salvato il loro corpo). Poi di solito non vengono ricoverate in neurologia (questo implicherebbe un pensiero comunque in qualche modo connesso con la "mente"della persona) ma in quanto pensate come portatrici di una malattia "organica"afferiscono a reparti che poco hanno a che fare con la psicologia. Quindi ben vengano riflessioni come questa che sottolineano lo stato di sofferenza sottostante il fatto che una ragazza smetta di mangiare...
RispondiEliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaGrazie per i complimenti e per l'osservazione. Anzi, devo ammettere che sono lusingato per il commento tecnico, e posso solo dire che se avessi saputo prima del dibattito che avrebbe suscitato senz'altro ci avrei speso più attenzione... Detto questo, è ben vero che la farcitura è frutto della mia immaginazione, tuttavia altrettanto veri sono gli avvenimenti, tra cui e il fatto che è stata ricoverata nel reparto di neurologia. Per carità, potrei sbagliarmi, eppure mi sembrava proprio fosse così; perciò volevo sapere: sarebbe molto anormale?
RispondiEliminaNo, può essere, anche se di solito non accade...il senso del mio commento è che purtroppo difficilmente viene preso in considerazione lo stato di sofferenza sottostante e si aggredisce solo il sintomo, con il risultato il più delle volte di ottenere un mantenimento in vita ma non si fa nessun lavoro sulle cause di una patologia potenzialmente comunque mortale. insomma, io penso questo: se c'è bisogno di un ricovero che si faccia, l'importante è che si cerchi di capire perchè una ragazza decide di lasciarsi morire (almeno potenzialmente) di fame. Mi sembra che il tuo pezzo sottolinei invece proprio questo aspetto di sofferenza che, sembrerà strano, ma molti addetti ai lavori non vedono...Insomma: chiedetelo ai poeti...
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