domenica 17 giugno 2012

And No one paied attention when you just stop eating


Conosco una persona che si chiama ******** *******, ed esiste veramente. Non conosco molto bene la sua storia, né quella della sua famiglia, non conosco i suoi genitori di persona, so solo quello che mi è stato raccontato.

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Da piccola amava giocare con le macchinine; strano, dicevano, ma le piacevano molto anche le bambole. In particolare era affezionatissima a “Barbie tutti i trucchi”, una pupazza bellissima, truccatissima, coloratissima, che aveva gli occhi tondi, un po' da pesce, ma distanti e azzurri, un po' nascosti dalla frangia bionda. Immaginava di andare a fare la spesa nell'angolo nascosto della sua camera, poi tornava e preparava da mangiare per i figli, gomma e temperino, e poi si sedeva su una sedia a guardare il cielo, e tutti quei begli uccelli che ci navigavano tranquilli e spensierati, cinguettando tra loro. La mamma la vestiva come un camionista. Arrivava a scuola attrezzata di salopetta, il più delle volte, aveva il cerchietto tra i capelli corti, e io la immagino col mento imbronciato contro il petto e la mani strette forte in un piccolo pugnetto di bambina, mentre frigna contro qualcosa. Aveva una maglietta rossa e le caviglie le rimanevano scoperte sotto il completo blu. Le piaceva correre, era magra, e non aveva molta voglia di fare le cose da femminuccia, ma non aveva il coraggio di inseguire i maschi, perciò si ritrovava esclusa da tutti i piccoli cerchi entro i quali bambini della sua età si chiudevano gelosamente; ma la cosa non le pesava più di tanto, colorava, disegnava, giocava con le macchinine e pensava di diventare grande: questo le era più o meno sufficiente.
Sin da bambina, ******** è sempre stata magra, ma magro non era suo fratello minore, che invece mangiava, e amava mangiare, e non smetteva mai di mangiare. Erano piccoli, di questo non si curavano.
Poi iniziarono le elementari, e quando cominciò le medie era evidente che ******** stesse crescendo. Era tra le ragazzine più alte (pure gelosa di questa sua bellezza), ma non le era mai interessato nessun ragazzo. La mattina si alzava, e dopo essersi preparata aspettava, tutta vestita e con lo sguardo assorto tra le pieghe del pavimento, che papà la caricasse in macchina e la portasse a scuola. Non amava andare a scuola, neppure lo odiava. Non otteneva dei risultati brillanti, ma nessuno la ritenne mai una studentessa negligente: sedeva là, occupava il banco infondo perchè le professoresse non si preoccupavano del fatto che potesse disturbare. Non era una ragazza asociale, aveva un gruppetto di amiche, e piuttosto spesso frequentava anche i suoi compagni di classe. A casa studiava, o si annoiava. Non ha mai fatto nessuno sport, per quanto ne fosse piuttosto portata grazie al suo corpo piccolo e atletico. Distinto fu il voto con cui si diplomò alle medie. Poi cominciò il San Carlo. In casa ci furono grandi litigi sulla scuola da farle frequentare. A lei non sarebbe dispiaciuto un liceo classico, uno statale, le era piaciuta la presentazione del Tito Livio, anche se molte sue amiche sarebbero andate al Manzoni. Suo padre, d'altra parte, non avrebbe accettato altra alternativa al di fuori del san carlo. Fu la madre a prendere le sue difese. Per qualche tempo le porte di casa sbatterono con più forza del solito, a tavola c'era un po' più di silenzio, qualche volta doveva andare a scuola da sola, e iniziò a dimenticarsi di quando suo padre e sua madre si prendevano per mano. Accanto a suo fratello, vide aumentare i silenziosi spazi di tempo che si creavano nella piccola stanza che condividevano.
Un paio di mesi dopo era iscritta al San Carlo, ma la cosa non le pesava più di tanto. Nel liceo si ritrovò gettata, e per sopravvivere si abituò ad apparire. Non furono mesi facili, i primi che visse nella classe al secondo piano. Non capiva in che situazione si trovasse, suo malgrado.
Fu una trasformazione brusca e scordinata quella che la investì in quel periodo, di cui si sentì vittima inconsapevole. Aveva smesso da un po' di giocare con Barbie tutti i trucchi, però non aveva mai smesso di guardare fuori al tempo del mondo. Le sembrava di prendere ora possesso del suo corpo, e scopriva di non esserne affato abituata; l'inverno era terribilmente freddo, e il freddo era proprio freddo. Soffriva. Era carne viva senza involucro, si sentiva ferita da ogni carezza; il cuore le batteva a fior di pelle, e non le pareva di avere il tempo di organizzare una difesa contro tutte quelle rabbiose intemperie che vedeva fuori dalla finestra. Non colorava, non disegnava più. La sua vita, a ben pensarci, non era altro che la scuola, e la sua popolazione. C'erano professori, i primi che avesse mai avuto, e c'erano i suoi coetanei, anche maschi, i primi che avesse mai visto. Le femmine, d'altro canto, non erano molto interessate a lei: il modello era chiaro, il modello camminava a piccoli e aggraziati passetti per i corridoi, seguito da un affettuosissimo profumo, vestito deliziosamente, divinamente truccato. Lei era ancora sporca di latte nelle sue scarpette consumate, non era certo la compagna ideale da portare in giro.
Poi fu come un risucchio. Com'è possibile? Eppure non le sembrava tanto strano indossare quei vestitini, si chiedeva anzi come mai avesse iniziato a vestirsi così solo in quel momento. E le veniva così naturale indossare quelle maschere, le riusciva un esercizio così disinvolto, che non fece neppure in tempo a voltarsi per vedere la fodera del suo piccolo corpicino, che giaceva stramazzato dietro di lei, ad un solo passo dalle nuove gambe, lunghe e pallide, sottili.
Ma chiunque l'avrebbe riconosciuta, io stesso non la scambiai mai per nessun'altra, così cambiata, perchè dentro di lei non era cambiato nulla, nulla sembrava diverso da prima.
Ma è sempre stata svampita, troppo svampita. Era svampita nel modo di camminare a scatti, lento e poi veloce, come se continuasse a dimenticarsi verso dove muovesse; era svampita nel modo veloce di sorridere, un po' ebete, guardando da qualche altra parte; era svampita nel modo con cui faceva le cose, incostantemente, con meticolosa precisione e grande superficialità insieme. Era tanto svampita che non era completamente consapevole, secondo me, quando si cacciò due dita in gola, seduta in bagno, abbracciata alla tazza del cesso.
In verità era la prima volta che vomitava apposta, e le venne piuttosto spontaneo, senza nemmeno capire cosa voleva dire quello che stava facendo. Era da giorni che non mangiava quasi nulla, niente colazione, niente pranzo, a cena un po' di formaggio; per mamma e papà semplicemente non stava tanto bene. Aveva bisogno di grandi energie, stava crescendo, era normale che si sentisse così debole, questo dicevano i suoi genitori. Supradin, vitamine, reggiti ragazza! Si sentiva sempre debole, ma si vedeva dimagrire, ed era fiera di se stessa, enormemente fiera di se stessa. Si ammalò una prima volta, poi una seconda, poi una terza nel giro di pochi mesi, non aveva più nessuna forza per resistere ai bacelli malefici che volavano sulle foglie fuori dalla finestra. Sdraiata nel letto, malata, guardava fuori un quadro autunnale. Si tastava il corpo, conosceva sporgenze, rientanze, ossa che mai aveva sentito prima. Non si era mai sentita particolarmente grassa, ma nulla le poteva dare la stessa soddisfazione che le dava conquistarsi quel corpo, tutto nuovo, capace di cose incredibili, bello, slanciato. Nessuna conquista superava la gioia di accarezzarsi il ventre piatto, di vedere le braccia sottili, e il collo lungo e affusolato che reggeva quella testa piuttosto carina, alla fine. All'inizio, separarsi dal cibo era stato difficilissimo. Lei non ha mai amato nulla più di quanto amasse mangiare, mangiare bene, mangiare male, mangiare, mangiare e mangiare. Era una condizione esistenziale, il profumo che precedeva la cena, il gusto che la accompagnava, e la sensazione di completezza che la seguiva, erano un ciclo di vita, che aveva sempre amato, rispettato, e a cui doveva moltissimo. Separarsi dal cibo era stato un dolore che si era inflitta inconsapevolmente, ma che svanì presto. Subentrò poi un periodo lunghissimo di inappetenza, un periodo in cui non era capace più di mangiare, che aveva dimenticato, completamente, quale fosse il rito sacro che accompagnava il momento del pasto. Poi avvenne che i suoi genitori si accorsero che vomitava. Scoprirono anche che prendeva i lassativi, ne prenedeva tantissimi. Fu il padre che prese la situazione in mano; ma lei era troppo fragile, così commise un gravissimo errore. ******** non subì solo la rabbia del padre, non solo i suoi insulti e i castighi, ma anche lo sguardo deluso della madre, uno sguardo pietoso, come di rassegnata sconfitta e di tradimento. ********** non voleva questo, lei non era questo, non era anoressica, non era quello che tutti pensavano che lei fosse. Lei voleva solo dimostrare a se stessa la propria forza, era solo così svampita... Così quando cominciarono i controlli lei non sgarrava mai, era ligia, tutto quello che desiderava era far piacere ai propri genitori, far capire loro che non era sua intenzione voltar loro le spalle; perciò mangiava tanto, il più possibile: il primo no, non lo tocco, del secondo prendo solo qualcosa, ma voglio una bella coppa di gelato, e un altra, e poi un'altra. Un'altra grazie. Vedi papà, guardami mamma, quanto mangio! Ho finito tutta la torta!
Poi tornò a vomitare.
In questo momento non la riconobbi più. Era persa, tornare mangiare le aveva rubato la sostanza, ora non capiva più di cosa avesse bisogno il suo corpo per vivere; dolce, poi frutta, poi secondo e ancora primo, tutto nello stomaco (dopo averli frullati).
Tornò a divorare lassativi; non mi sono mai cacciata le dita così in fondo alla gola, pensò un giorno.
Lo venne a sapere, ma non poteva accetare una situazione del genere, così il padre la spedì all'ospedale.
-Non è il caso che passi le vacanze estive in giro, le dissero i medici, così Luglio, Agosto e Settembre furono mesi di soggiorno gratuito nel letto del reparto neurologico del Niguarda.
Non è stato neppure l'arresto cardiaco, le lacrime dei suoi genitori o l'orrore per il suo corpo sottile, pieno di tubicini, che le ha dato la forza di uscirne.
È passato più di un anno, e ora l'ospedale e i medici e gli infermieri hanno tutti una faccia più familiare. Solo lei, ai loro occhi, è rimasta un esile mostro, inghiottito dalla propria voracità, diciassettenne e in fin di vita.

4 commenti:

  1. Complimenti per il bel pezzo...Solo qualche osservazione da addetta ai lavori: adesso le anoressiche difficilmente muoiono, perchè vengono comunque "salvate"(o almeno viene salvato il loro corpo). Poi di solito non vengono ricoverate in neurologia (questo implicherebbe un pensiero comunque in qualche modo connesso con la "mente"della persona) ma in quanto pensate come portatrici di una malattia "organica"afferiscono a reparti che poco hanno a che fare con la psicologia. Quindi ben vengano riflessioni come questa che sottolineano lo stato di sofferenza sottostante il fatto che una ragazza smetta di mangiare...

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  3. Grazie per i complimenti e per l'osservazione. Anzi, devo ammettere che sono lusingato per il commento tecnico, e posso solo dire che se avessi saputo prima del dibattito che avrebbe suscitato senz'altro ci avrei speso più attenzione... Detto questo, è ben vero che la farcitura è frutto della mia immaginazione, tuttavia altrettanto veri sono gli avvenimenti, tra cui e il fatto che è stata ricoverata nel reparto di neurologia. Per carità, potrei sbagliarmi, eppure mi sembrava proprio fosse così; perciò volevo sapere: sarebbe molto anormale?

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  4. No, può essere, anche se di solito non accade...il senso del mio commento è che purtroppo difficilmente viene preso in considerazione lo stato di sofferenza sottostante e si aggredisce solo il sintomo, con il risultato il più delle volte di ottenere un mantenimento in vita ma non si fa nessun lavoro sulle cause di una patologia potenzialmente comunque mortale. insomma, io penso questo: se c'è bisogno di un ricovero che si faccia, l'importante è che si cerchi di capire perchè una ragazza decide di lasciarsi morire (almeno potenzialmente) di fame. Mi sembra che il tuo pezzo sottolinei invece proprio questo aspetto di sofferenza che, sembrerà strano, ma molti addetti ai lavori non vedono...Insomma: chiedetelo ai poeti...

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