Fuori c'era vento e si gelava, ma la
carrozza era già pronta, così E. si avvolse nel mantello e uscì
subito.
Quando arrivò, in lontananza la casa
mandava solo qualche luce fioca, proveniente da una delle finestre ai
piani alti. R. gli si fece incontro incespicando, accigliato e
ansimante, cercando di digerire i pochi passi che aveva fatto dal
porticato al cancello:
-Qui non si cava un ragno dal buco!-
disse ancora prima di salutare, facendosi vicino ad E. e guardando in
terra. Toltosi il cappello trasse un fazzoletto di tasca e lo passò
rapido sulla fronte. -Sembrano tutti matti là dentro, continuò –
io non capisco proprio, sembrano in preda al demonio!-
Esclamò con l'ultimo pelo di voce. E.
aveva cominciato ad arrotolare il tabacco, ma si sentiva stizzito ed
insoddisfatto. Chiese che gli fosse mostrato prima il corpo della
vittima. Incespicando nei piedi grassi, R. gli fece strada lungo il
porticato, attorno alla casa. A sinistra, prima della scuderia, dove
un paio di cavalli neri stavano ritti e silenziosi, sbuffando solo di
tanto in tanto nuvole di condensa, E. scorse subito il lenzuolo
bianco che copriva il corpo, solo lievemente intinto di sangue, e poi
una pozza scura e densa tutt'attorno. L'alzò e vide la nuca fredda e
spettinata, e il volto deformato premuto sulla ghiaia. Si sentì
avvampare di un sentimento scomodo e caldo, che gli percorse tutto il
corpo, come un fastidio che non riusciva ad identificare, e si alzò
di scatto. Accese la sigaretta, fece qualche passo scrocchiante
avanti ed indietro, poi la spense con rabbia e gettò il mozzicone
lontano. Quando si apprestò ad entrare in casa, sentì un urlo
provenire dall'ingresso. Aprì rapidamente la porta, e fece appena in
tempo a scorgere la sagoma di una donna, forse la moglie, correre su
per le scale in vestaglia. La chiamò, si presentò e le disse di non
preoccuparsi, poi cominciò a salire. Aprì una porta, e dietro il
letto vide la donna che piangeva, e stringeva forte a sè una
ragazzina fragile e castana, con i capelli delicati sparsi
disordinatamente sulle spalle e sul collo, ancora tremante. “Dov'è
l'agente?” pensò E. avvicinandosi, ma come fece un passo la donna
lo guardò furiosa, prese un libro dal comodino e glielo scagliò
contro, poi un altro, poi la sveglia, un fermacarte e un posacenere.
E. stava indietreggiando, quando d'un tratto lei si alzò in piedi,
aprì il cassetto del comodino, estrasse un punteruolo rosso
insanguinato e glielo lanciò. Subito dopo si riaccasciò, sfinita, e
tornando a singhiozzare accanto alla figlia, in silenzio, senza
emettere alcun rumore. E. ridiscese le scale, e gli si avvicinò
l'agente che cercava di scusarsi -scusatemi signore, avevo un
bisogno, e sono andato ai servizi, mi dovete scusare signore... ma...
come vi sentite?-
E. era paonazzo in volto, e infastidito
e arrabbiato ordinò di arrestare le due donne, dopodiché ritornò
in carrozza e senza nemmeno congedarsi ripartì svelto, solo pensando
confusamente a cosa servisse il suo lavoro e cosa ci facesse lui lì,
ad M., a fare una vita che non gli interessava, che il più delle
volte lo disgustava e che lo circondava come una prigione, senza
sbarre e catene, ma fatta di abitudini e convenzioni, di medici
grassi e incapaci, di routine e scelte forzate. Smise di tormentarsi
le fedine, si passò una mano tra i capelli folti, appoggiò il capo
al sedile, che era tornato a traballare, e lasciandosi dondolare di
qua e di là diede un occhiata alla luna, sempre nascosta dalle
nuvole, bassa sull'orizzonte e coperta dai rami secchi inverali;
chiuse gli occhi e dopo poco si addormentò.
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