sabato 23 novembre 2013

Il punteruolo rosso

  Fuori c'era vento e si gelava, ma la carrozza era già pronta, così E. si avvolse nel mantello e uscì subito.
  Percorse gli scalini dell'ingresso al contrario e si ritrovò nella corte interna. Oltre il cancello i cavalli sbuffavano e calciavano il terriccio freddo e umido. Quando la troica partì, E. pensò che l'inverno era arrivato, alla fine era arrivato. Poi, accarezzandosi lentamente il pizzo della barba, pensò ancora al giorno appena passato, e alla figura bislacca del suo corpo che scivolava sul ghiaccio, e alla pessima impressione che doveva aver suscitato nei suoi colleghi. E. lavorava nel dipartimento di polizia di M., una cittadina poco lontana da Vienna. Erano oramai anni che era salito al rango di ispettore, era conosciuto e rispettato dai più anziani, ma si preoccupava spesso della considerazione che nutrivano nei suoi confronti le matricole, i semplici agenti. La strada, uscendo dalla città, si faceva sconnessa ma E., sballottato di qua e di là nella cabina, continuava a lisciarsi il pizzo ed i baffi. Tra un ora, forse, pensava, sarebbe arrivato nella casa dell'assassinio, avrebbe guardato il corpo traforato dal punteruolo, si sarebbe arrotolato una sigaretta e avrebbe chiacchierato prima con il coroner, un anziano, come lui, ma grasso e sempre affannato, rosso in faccia, che si asciugava sempre il sudore in viso, che fosse caldo o freddo, con gesto rapido della mano e ricacciando subito in tasca il fazzoletto di seta, lercio; poi avrebbe ascoltato le testimonianze e i pianti dei familiari, con aria ferma e autoritaria, diligentemente seduto in poltrona, e avrebbe spento il mozzicone nel posacenere davanti a sé. Si sarebbe consultato con l'agente e sarebbe tornato a casa per la stessa strada che percorreva ora, alle due o alle tre di mattina, quando è ancora del tutto buio ma tra le fronde degli alberi lungo la carreggiata gli uccellini, confusi dalle luci della strada, cinguettano al nuovo giorno. C'era la luna piena, quella sera, ma era nascosta dietro un sottile strato di nuvole, e sporcava di latte soltanto un piccolo circolo attorno a sé.
Quando arrivò, in lontananza la casa mandava solo qualche luce fioca, proveniente da una delle finestre ai piani alti. R. gli si fece incontro incespicando, accigliato e ansimante, cercando di digerire i pochi passi che aveva fatto dal porticato al cancello:
-Qui non si cava un ragno dal buco!- disse ancora prima di salutare, facendosi vicino ad E. e guardando in terra. Toltosi il cappello trasse un fazzoletto di tasca e lo passò rapido sulla fronte. -Sembrano tutti matti là dentro, continuò – io non capisco proprio, sembrano in preda al demonio!-
Esclamò con l'ultimo pelo di voce. E. aveva cominciato ad arrotolare il tabacco, ma si sentiva stizzito ed insoddisfatto. Chiese che gli fosse mostrato prima il corpo della vittima. Incespicando nei piedi grassi, R. gli fece strada lungo il porticato, attorno alla casa. A sinistra, prima della scuderia, dove un paio di cavalli neri stavano ritti e silenziosi, sbuffando solo di tanto in tanto nuvole di condensa, E. scorse subito il lenzuolo bianco che copriva il corpo, solo lievemente intinto di sangue, e poi una pozza scura e densa tutt'attorno. L'alzò e vide la nuca fredda e spettinata, e il volto deformato premuto sulla ghiaia. Si sentì avvampare di un sentimento scomodo e caldo, che gli percorse tutto il corpo, come un fastidio che non riusciva ad identificare, e si alzò di scatto. Accese la sigaretta, fece qualche passo scrocchiante avanti ed indietro, poi la spense con rabbia e gettò il mozzicone lontano. Quando si apprestò ad entrare in casa, sentì un urlo provenire dall'ingresso. Aprì rapidamente la porta, e fece appena in tempo a scorgere la sagoma di una donna, forse la moglie, correre su per le scale in vestaglia. La chiamò, si presentò e le disse di non preoccuparsi, poi cominciò a salire. Aprì una porta, e dietro il letto vide la donna che piangeva, e stringeva forte a sè una ragazzina fragile e castana, con i capelli delicati sparsi disordinatamente sulle spalle e sul collo, ancora tremante. “Dov'è l'agente?” pensò E. avvicinandosi, ma come fece un passo la donna lo guardò furiosa, prese un libro dal comodino e glielo scagliò contro, poi un altro, poi la sveglia, un fermacarte e un posacenere. E. stava indietreggiando, quando d'un tratto lei si alzò in piedi, aprì il cassetto del comodino, estrasse un punteruolo rosso insanguinato e glielo lanciò. Subito dopo si riaccasciò, sfinita, e tornando a singhiozzare accanto alla figlia, in silenzio, senza emettere alcun rumore. E. ridiscese le scale, e gli si avvicinò l'agente che cercava di scusarsi -scusatemi signore, avevo un bisogno, e sono andato ai servizi, mi dovete scusare signore... ma... come vi sentite?-

E. era paonazzo in volto, e infastidito e arrabbiato ordinò di arrestare le due donne, dopodiché ritornò in carrozza e senza nemmeno congedarsi ripartì svelto, solo pensando confusamente a cosa servisse il suo lavoro e cosa ci facesse lui lì, ad M., a fare una vita che non gli interessava, che il più delle volte lo disgustava e che lo circondava come una prigione, senza sbarre e catene, ma fatta di abitudini e convenzioni, di medici grassi e incapaci, di routine e scelte forzate. Smise di tormentarsi le fedine, si passò una mano tra i capelli folti, appoggiò il capo al sedile, che era tornato a traballare, e lasciandosi dondolare di qua e di là diede un occhiata alla luna, sempre nascosta dalle nuvole, bassa sull'orizzonte e coperta dai rami secchi inverali; chiuse gli occhi e dopo poco si addormentò.

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